Principio di indipendenza dei moti simultanei di Elena Gottardello

Ora sta decisamente meglio. I momenti peggiori sono finiti.
Con l’orecchio sano riconosce i passi scalzi di Cecilia, dietro alla sdraio dove lei finge di dormire, diretti alla siepe di fotinia: poi un cigolio, gocce d’acqua, il ronzio di un insetto.
– Ti sei svegliata? – la voce di Cecilia arriva da sinistra.
Allora apre gli occhi, e si volta per vederla. Anzi, ora riesce perfino a “guardarla”. Ancora meglio, riesce a guardarla e sorridere, quando aveva pensato non ci sarebbe più riuscita.
Ottavia aveva potuto vantarsi di aver pianto solo due volte in vita sua: da bambina, quando si era persa durante una gita in laguna, e da ragazza alla morte del padre. Ma ce n’era stata una terza: quando aveva visto il viso insanguinato di Cecilia. E poi, dopo quella, tutte le altre volte. A casa.
– Mi sono svegliata poco fa – risponde, e con la mano allontana un’ape che vaga sopra il suo plaid.
Adesso è diverso: ancora qualche tempo e tra di loro tornerà tutto come prima, forse meglio.
Sei giorni dopo che aveva lasciato la cattedra di Fisica Teorica per andare in pensione, Tito era stato ricoverato nel reparto di lungodegenza, e lei aveva sostituito le giornate divise tra aula, laboratorio e studio, con giornate in hospice, ambulatorio oncologico e un paio d’ore in cucina, di sera, con il telegiornale in sottofondo. Camminava o prendeva l’autobus per l’ospedale, non guidava. Nei suoi sandali di gomma, usciva nella calura estiva, senza troppo pensare né aspettarsi.

Se su un corpo non agiscono forze o agisce un sistema di forze in equilibrio, il corpo persevera nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme.

Aveva avuto il tempo per prepararsi alla vedovanza: quando Tito morì, Ottavia si era ormai abituata a vivere da sola in via San Candido. Terminata l’assistenza a Tito in ospedale, si era ritrovata a fare i conti con un’inerzia a cui non era né adatta né adattabile.
Così, in linea con la sua natura pratica, realizzò di avere un disagio e decise di affrontarlo con razionalità.

Era settembre, il mese giusto per mettere un annuncio all’università: si candidava come padrona di casa per studenti, ma preferiva studentesse, disposti a condividere il piano inferiore, composto da una camera con bagno e un piccolo salotto, cucina in comune, no animali e no feste dopo le sei.
Cecilia aveva telefonato il giorno dopo per un appuntamento, aveva visto l’annuncio passando in biblioteca, non era una studentessa, aveva detto, ma un’insegnante di latino appena arrivata e in cerca di alloggio. Si era trasferita lì in due giorni, portando con sé poche cose e adattandosi agli ambienti e alle esigenze della casa con garbo. Si muoveva per le stanze scalza e in abiti molto lunghi, “fluttuanti”, come li definiva tra sé Ottavia.
Quando rientrava da scuola, Cecilia si cambiava, scioglieva i capelli lunghi, si presentava in cucina a piedi nudi, versava delle patatine in un piatto e sorseggiava un bicchiere di Merlot acquistato al supermercato. Ottavia, che non aveva mai voluto in casa sacchetti di patatine né aveva mai concepito che si potesse bere del vino a stomaco vuoto, guardava quel corpo giovane e sinuoso spostarsi dalla sedia al divanetto a un’altra sedia ancora. Ascoltava Cecilia chiacchierare delle cose accadute in classe, la guardava accarezzarsi i capelli con una mano e ciondolare il bicchiere mezzo vuoto con l’altra. Poi Ottavia apriva il frigo, pensava a cosa fare per cena, Cecilia rifletteva a voce alta. Un po’ alla volta, arrivarono a condividere qualche ingrediente e a sperimentare addirittura delle ricette.

Se a un corpo libero di muoversi in tutte le direzioni orizzontali, fermo o in moto a velocità’ costante su una superficie perfettamente liscia, viene applicata una forza, la sua velocità varia.

Dopo tre settimane dall’arrivo di Cecilia, Ottavia aveva eliminato la vecchia tuta grigia da casa, aveva acquistato un abito di mussola bordeaux lungo fino alle caviglie, e sostituito le ciabatte con un paio di pantofole verdi.
Poco alla volta, si ritrovò a raccontarle delle sue ricerche in Fisica teorica e delle loro applicazioni nella produzione di un tipo di vetro adatto agli aerei, di quanto la ricerca le mancasse, e la Fisica con lei. Cecilia le raccontava di suo marito Giorgio, del lavoro che li teneva separati, un po’ il suo e un po’ quello di lui, ma solo per un anno, almeno sperava, perché lei avrebbe chiesto il trasferimento appena possibile.
Poi ci fu l’incidente, pensa Ottavia allontanando un’altra ape dal bracciolo della sdraio.
Sono passati cinque mesi da allora.
Quella sera, lei e Cecilia dovevano uscire per cena: niente ricette nuove da provare, quella domenica, ma un ristorantino appena aperto nella piazza antica.
Cecilia aveva percorso il corridoio con la sciarpa al collo, il cappotto e una borsetta blu a tracolla.
– Ho voglia di mangiare bene, offro io –, aveva detto Ottavia.
Avevano passeggiato fino al ristorante per il breve tratto che le separava da casa. Ottavia indossava un soprabito leggero, e il cappello di feltro verde tenuto per le occasioni speciali che Tito le aveva regalato un Natale di molti anni prima. Cecilia portava un paio di jeans sotto il cappotto, i capelli raccolti sfuggivano al nastro e scendevano sulle orecchie, e sulla sciarpa.
L’aria era fresca. Attraversarono la piazza antica. Il bianco impuro della pavimentazione di marmo, le viole nelle aiuole, i lampioni di ferro, la fontana: un disegno, pensò Ottavia. Aveva preso Cecilia sottobraccio, e si era sentita felice di essere in giro per la città con quella creatura sofisticata, e di portarla a mangiare qualcosa di raffinato, che lei non avrebbe saputo preparare.
Entrarono nel ristorante affollato e un cameriere con il pizzetto le fece sedere vicino a una vetrata che dava sulle aiuole. Ottavia volle provare gli spaghetti con cacio, pepe e scampi, e il filetto di ricciola con la crema di piselli, Cecilia l’insalata di faraona ai pinoli e uvetta, e uova di quaglia: detestava il pesce. Mangiarono di buon appetito, Ottavia ordinò una bottiglia di Merlot e una di Vernaccia. Dopo che ebbero finito una mousse ai frutti di bosco, il cameriere si avvicinò al loro tavolo e tolse le due bottiglie vuote, Cecilia chiese il caffè e Ottavia il conto.
Mentre si sistemava il cappello e si avviava alla cassa, notò che il cameriere la fissava e intanto sparecchiava il tavolo. Ottavia gli dava le spalle: si sentiva euforica e leggera mentre si congratulava con la cassiera per la buona cucina, l’ottimo vino, la raffinatezza del locale. Non riusciva a smettere di sorridere mentre parlava e rimetteva il portafoglio nella tasca del cappotto. Continuò a sorridere mentre apriva la porta del locale e incespicava su un cordolo. Cecilia la prese sottobraccio e la guidò lungo il marciapiede.
Si era alzato un vento fresco e Ottavia alzò il bavero. – Che dici di un altro locale? – chiese.
– Abbiamo già bevuto – rispose Cecilia.
– Sento il bisogno di qualcosa di alcolico, per digerire. Non ti chiudi il cappotto?
– Vorrei rientrare – disse senza rispondere.
– Se avessi chiesto un amaro a quel cameriere, stai sicura che mi credeva un’ubriacona.
– Non ne hai l’aria.
– Davvero? – aveva chiesto Ottavia.
– Però è meglio se rientriamo.
– C’è un posto qui vicino, ci andavano i miei studenti, ne sentivo parlare, io non ci sono mai andata.
– Ma è lontano?
– Non lontano, ci arriviamo in dieci minuti, è dietro il Duomo.
– E dov’è il Duomo?
– A dieci minuti
– e si era messa a ridere.
Cecilia aveva sospirato. – Non vorrei fare tardi.
– Non faremo tardi.
E si erano incamminate.
Erano le undici passate da poco e le vie del quartiere erano già pronte per la notte: i primi netturbini, poche coppie in giro, nessuna bicicletta.
Entrarono in un pub dove faceva molto caldo. Trovarono posto a un tavolo di legno sbeccato, Ottavia consultò gli alcolici sull’unto di un menu cartonato e scelse un Caruso, Cecilia un Martini. – Offro io – aveva detto Ottavia.
Cecilia l’aveva guardata e aveva risposto: – Non serve. – Passarono cinque minuti in silenzio, Ottavia osservava il locale, i quadri improbabili, il bancone anni ottanta, le luci incassate al soffitto, e mentre canticchiava la musica in sottofondo Cecilia guardava il cellulare.
Quando erano uscite, le campane del Duomo stavano suonando la mezzanotte.
– È tardissimo, avrei voluto sentire Giorgio al telefono – aveva commentato Cecilia camminando svelta.
Poi si era fermata. All’improvviso erano sbucati da un’auto in sosta due uomini che si erano parati davanti a loro. Ottavia li aveva guardati, le era scappato da ridere. Quelli le avevano fissate dondolando le braccia: moto circolare non uniforme su arco non uguale, aveva pensato Ottavia trattenendo a stento un’altra risata.
Dandosi pacche tra loro, i due riuscivano a impedire il passaggio. Avevano visto che Ottavia rideva.
– Cos’hai da ridere, brutta vecchia? – aveva detto uno dei due.
Poi avevano guardato Cecilia. Il tizio più alto l’aveva tirata verso di sé afferrando un lembo della sciarpa, con gli occhi piantati nei suoi le aveva strappato la borsa. Cecilia urlava.
Aveva cercato di metterli a fuoco, ma lì per lì non era riuscita a vederli bene. Le ci era voluto più di un attimo per capire che uno era giovane e con l’acne, l’altro aveva la barba. Come riferì poi alla polizia, le parve che quello con l’acne indossasse una giacca di jeans e portasse i capelli lunghi. Il tizio alto e con la barba aveva estratto qualcosa dall’interno della giacca con una mano, mentre con l’altra teneva la sciarpa di Cecilia; le aveva detto sottovoce qualcosa, poi l’aveva presa per il collo, allora Ottavia aveva visto il coltello. Il resto era stato un attimo. Cecilia era a terra mentre il giovane con l’acne urlava qualcosa, poi entrambi erano scappati oltre le auto, attraverso la strada. Ottavia sentiva caldo lungo una gamba, dentro ai pantaloni, nei calzini, dentro le scarpe. Le arrivavano voci mentre fissava Cecilia stesa a terra, con il viso coperto di sangue. Sentì un groppo salirle in gola e scoppiò a piangere.
Una passante chiamò un’ambulanza. Si fecero portare al Pronto Soccorso.
Un chirurgo esperto in interventi facciali le strinse la mano in una sala d’aspetto alla luce di un neon intermittente. Le aveva spiegato che non poteva informarla sullo stato di Cecilia perché non era una familiare, poteva pensare lei ad avvisare i congiunti? Ottavia cercò il cellulare di Cecilia nella borsetta blu. Mentre Cecilia fu portata in sala operatoria, Ottavia trovò il numero del marito. Lui arrivò dopo due ore arrancando dentro una mantella verde che la pioggia appena iniziata aveva reso lucida.
Giorgio si abbandonò su una sedia fuori dall’astanteria. Fissava la base del muro davanti a lui, chiuso nel silenzio di chi sta cercando di rimettere a posto i pezzi di un puzzle saltato in aria senza sapere in quale angolo trovarli. Ottavia riconobbe in lui lo sguardo mite che hanno i migliori ricercatori, capaci di sorvolare elementi e fenomeni con il gesto soffice di una mano sul velluto e la mira esatta di un rapace. Sarebbe riuscito a ritrovare tutti i tasselli del puzzle.
Lo vide aprirsi la mantella, sotto indossava una camicia a quadri spiegazzata, una penna stilografica sbucava da un taschino.
Un’infermiera si avvicinò e gli disse che sua moglie stava per uscire dalla sala operatoria e poteva raggiungerla al piano terra. Ottavia gli andò dietro e si presentò. Raggiunta la porta automatica delle sale operatorie, lui la guardò, le strinse la mano, poi si coprì il viso.
Cecilia uscì sopra un lettino su cui era appesa una flebo, la testa coperta da bende.
Fu di nuovo operata dopo sei ore, si temeva il diffondersi dell’infezione batterica. Il chirurgo si era avvicinato e aveva detto che sperava sarebbe bastato.
Bastò.
Ottavia rivide la sua amica due giorni dopo nella camera singola del reparto. Era senza l’orecchio destro e si sforzava di sorridere.
Giorgio si sistemò da Ottavia, nella stanza al piano inferiore. Nella settimana successiva, andava e veniva dall’ospedale. Ottavia cominciò a pensare che la evitasse di proposito, uscendo e rientrando a orari improbabili.
Cercò di mantenere uno sguardo lucido sulla faccenda: osservò il modo in cui la salutava, evitando di guardarla o di riferirle qualunque cosa avesse a che fare con Cecilia. Presto si convinse che ce l’avesse con lei, considerandola responsabile per l’aggressione. Ottavia si chiudeva in camera, o in bagno, e scoppiava a piangere.
Una sera, sentendolo rientrare dall’ospedale, lo intercettò e si propose di preparagli la cena. Lui accettò, e Ottavia scoprì un uomo che ringraziava, chiedeva permesso, e chiudeva le porte accompagnandole con la maniglia. Chiacchierarono di università e ricerca. Era un linguista, aveva una cattedra di Filologia Germanica, e si occupava di un progetto di ricerca tra Milano e Volda, in Norvegia.
Quando dovette ripartire, chiese a Ottavia se poteva occuparsi di Cecilia.
Dal canto suo, Cecilia reagiva alle cure, ubbidiente agli ordini dei medici. Fu dimessa presto.
Fu sempre molto gentile, e alle due colleghe che vennero subito a trovarla a casa disse con il suo consueto garbo che Ottavia era stata coraggiosa e pronta, che era stata, ed era, indispensabile. Ottavia aveva preparato del tè con la crostata al limone, l’unica che le veniva bene. Una delle due colleghe, una donna minuta che ricordò a Ottavia una tartaruga, si lamentò tutto il tempo di dolori alla schiena e al collo che non le permettevano di salire in aula con il peso dei libri. L’altra, una giovane scura d’occhi e di capelli, entrò tenendo in mano un casco che posò sul pavimento della cucina, e parve da subito annoiata dai discorsi della prima. Ottavia ascoltava e sorrideva e non parlava: temeva Cecilia potesse infastidirsi, considerarla invadente. Osservò come chiacchierava con le altre due, si sentì tagliata fuori. Un elemento estraneo. Capì che aveva ragione quando realizzò che, per tutto il tempo della visita, Cecilia non le aveva mai parlato.
Quella sera si chiuse in bagno e pianse per venti minuti.
A mano a mano che le indagini della polizia proseguivano, Cecilia migliorava e le condizioni di salute di Ottavia peggioravano.
Aveva iniziato ad avere attacchi di panico, crisi d’ansia e dolori alla testa. Piangeva tutti i giorni, di notte dormiva poco, e quando dormiva faceva incubi.
Poco alla volta, Cecilia aveva iniziato a muoversi per casa senza capogiri, e aveva riacquistato quasi del tutto il suo aspetto, lasciava soltanto i capelli sciolti ai lati del viso per nascondere il moncone che spuntava dai cerotti. Non smetteva di ringraziarla per l’aiuto e la pazienza che aveva con lei. Si alzava e camminava sulle punte dei piedi scalzi attorno al divano, per mostrarle come ormai si era ripresa, ed era merito del tempo che le aveva dedicato.
E più Cecilia si rimetteva, più Ottavia peggiorava.
Continuava a ricevere le due colleghe di Cecilia, che arrivavano con mazzi di fiori e caramelle. Lei sedeva con loro attorno al tavolo, un corpo estraneo con un moto proprio, e ascoltava i loro discorsi in silenzio.
Cominciò a soffrire di sonnambulismo. Le capitava di svegliarsi bruscamente e di ritrovarsi in mezzo al salotto, o in bagno davanti alla vasca. Quando tornava a letto, sognava lame che le fendevano le braccia, le spalle, il collo, e poi le orecchie, da cui zampillava sangue nero.
Si convinse che Cecilia la odiasse in segreto per l’aggressione di quella notte. La gentilezza, la gratitudine, erano una maschera per nascondere le sue vere intenzioni.
A poco a poco, iniziò a occuparsi di Cecilia sempre meno. Cominciò a studiare i propri movimenti, a predisporre le parole da usare nelle loro conversazioni, a programmare i momenti insieme. Iniziò a scendere poco nelle stanze di Cecilia, e a evitare la cucina nelle ore in cui c’era lei.
Immaginava lame nascoste tra i cuscini del divano, tra le lenzuola, nel cassetto della tovaglia, tra i guanti in cucina, lame affilate e senza manico, rivolte verso l’alto, così che sarebbe stato inevitabile per lei tagliarsi. Ogni volta che apriva un cassetto o sedeva sul divano, spostava tutto con la punta delle dita.
Una mattina in cui si incrociarono davanti al fornello, calcolò quanti passi ci fossero tra Cecilia e il cassetto dei coltelli e quanto tempo avesse per raggiungere la porta. Ma mentre eseguiva la proporzione matematica, Cecilia si era seduta sul divanetto e raccogliendo le ginocchia al petto si era messa a canticchiare.
Fu un avvertimento.
La prossima volta non si sarebbe fatta cogliere così impreparata, esposta all’emotività.

A ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria.

È passato circa un mese. Se dovesse fare un bilancio, il loro rapporto è diventato molto saldo, quasi inevitabile. Cecilia si occupa di persona delle medicazioni, prepara i pasti e dà un’occhiata alla casa.
Grazie alle cure di Cecilia, Ottavia si sta riprendendo molto in fretta. E mentre la guarda muoversi scalza in terrazza, chiudere la canna dell’acqua, e radunare nel terriccio frammenti di foglie umide di fotinia, Ottavia pensa che presto riuscirà a dimenticare il dolore acuto e il sangue rosso scuro nel lavandino dopo che si era mozzata l’orecchio destro.