Pablo l’uruguayo di Massimiliano Piccolo

Al bar del paese tutti lo chiamavano il sudamericano. Poco prima che gli affibbiassero quel soprannome, a vent’anni, era conosciuto da tutti per la sua dieta piuttosto drastica: un paio di pacchetti di sigarette al giorno e il pessimo vino rosso della casa. 

Poi, un noioso giorno come troppi altri in quel paesino di mezza montagna, era giunto al bar ad annunciare che l’indomani sarebbe stato un grande giorno, anzi il più grande dei giorni, il giorno in cui si sarebbe imbarcato a bordo di una nave cargo diretta in America Latina. 

Subito dopo quella sortita bizzarra, tutti gli avevano chiesto se si trattasse di una delle sue solite cazzate e soprattutto quanto avesse bevuto. Infine, per smorzare quelle inutili prese in giro, gli avevano offerto un altro bicchiere di rosso. Lui aveva gentilmente declinato l’invito, aveva salutato tutti gli irriducibili compagni del circolo ed era uscito sussurrando che avrebbero verificato l’indomani. Ed è proprio così che era andata a finire. 

Nessuno lo aveva più visto e il suo nome era diventato uno di quei miti da tirare fuori durante le nottate di sbronze cattive, passate a perdere soldi a carte, quando non si sapeva più di che parlare.

Poi un giorno era ricomparso, a una trentina d’anni da quell’annuncio bizzarro. 

Camminava per il paese indossando le spoglie di uno strano tizio sulla cinquantina e tutti quelli che lo avevano adocchiato lo avevano guardato nel peggiore dei modi possibili. Qualcuno gli aveva addirittura riso in faccia per quegli strani oggetti che teneva stretti sotto il braccio e quell’aria da forestiero capitato lì per caso. Soltanto quando aveva raggiunto la casa dove abitava sua madre, quasi centenaria, ormai cieca, sorda, diabetica ma soprattutto molto malata, tutti i curiosi avevano compreso; era proprio lui, il sudamericano, tornato dopo chissà quanti anni dispersi in quel continente tanto lontano.

Lo avevano visto suonare e poi varcare quella porta di legno. Avevano assistito alla sua ricomparsa e alla sua recentissima scomparsa. Infatti, da quando aveva messo piede in casa per visitare la madre gravemente malata non lo avevano più rivisto. Tutti avevano cominciato a parlare di dove fosse finito e di come fosse ricomparso, silenzioso e con quegli strani aggeggi sempre ben stretti tra le mani. 

Uno dei giorni successivi, si era affacciato alla finestra della stanza di sua madre e aveva notato una piccola folla radunata proprio là sotto. Ad altre latitudini, avrebbe pensato che stessero per fare una serenata.

– Che ci fate lì? – aveva urlato con un fortissimo accento sudamericano. 

Non aveva fatto in tempo a finire quella frase che la piccola folla si era già dispersa. Qualcuno era entrato nel bar, qualcuno nelle case attorno, qualcun altro nella vicina chiesa per un improvviso attacco di devozione.

Il sudamericano era rientrato e aveva tenuto la mano di sua madre per due giorni e tre notti, fino a quando l’anziana donna aveva deciso che era giunta l’ora di lasciare quel piccolo paese di mezza montagna per varcare le porte del monte più luminoso. 

Al funerale c’era tutto il paese, cosa rarissima per un’anziana inferma che non usciva più di casa da anni. La chiesa era gremita, non c’era più nemmeno un posto a sedere. Il prete, durante la predica, aveva detto che non vedeva niente del genere da molto tempo e che era una cosa più che anomala per un luogo tanto poco abitato. Qualcuno era addirittura arrivato dai paesi circostanti, pur di non perdersi il ritorno di quella specie di fantasma, partito decine di anni fa e tornato così, dal nulla e all’improvviso. Il corteo funebre, degno di un funerale di stato, seguiva la bara da molto vicino, per poterlo studiare da una posizione privilegiata. 

Il sudamericano indossava occhiali scuri e il suo sguardo sembrava rivolto unicamente alla cassa in radica, ultimo claustrofobico rifugio per la vecchia madre spirata. Con una mano seguiva il ritmo della camminata dettata dalle gambe e con l’altra, dove risaltava un’evidente bruciatura tra pollice e indice, stringeva quei due affari che alimentavano la fantasia di tutti i curiosi accorsi.

Nessuno aveva osato rivolgergli la parola, tanto sembrava distaccato, lontano e ormai sconosciuto. Un po’ perché era passato troppo tempo, un po’ perché sembrava essere distante anni luce da tutto quello che gli stava accadendo attorno. 

Al termine della cerimonia l’uomo era scomparso nella casa della madre e ci era rimasto per qualche giorno, tanto che il paese aveva finito quasi per dimenticarsene. Qualcuno lo aveva avvistato nei pressi del piccolo supermercato, poco prima della chiusura. Si era fermato, era entrato a prendere della pasta e qualche legume in scatola e poi si era rintanato nuovamente dentro la casa della madre.

Dopo una ventina di giorni, i vecchi appostati fuori dal bar coi loro bicchieri di bianco si erano accorti che era uscito di casa e che stava camminando verso di loro. Era entrato nel locale senza salutare nessuno e aveva ordinato un Fernet.

Il barista glielo aveva servito e si era messo ad aspettare che cominciasse a parlare, a dire qualsiasi cosa. Visto che non apriva bocca, l’uomo dietro al bancone aveva deciso di buttarsi.

– Ma tu sei Paolo il sudamericano?

– No, sono Pablo l’uruguayo. – Aveva accennato un sorriso sicuro e aveva cominciato ad armeggiare coi due oggetti misteriosi da cui non si staccava mai. Aveva versato dal termos di metallo qualcosa di fumante e trasparente che pareva essere dell’acqua, facendola fluire dentro quella tazza nera, di chissà quale materiale, che conteneva una specie di erba umida e una cannuccia di metallo.

– Capisco. Posso chiederti una cosa?

– Sì.

– Cos’è quella roba lì?

– Fernet. Me l’hai servito tu.

– Intendevo l’altra.

– Mate.

Il barista, scettico e confuso, aveva deciso che era il caso di non replicare, evitando così di esporre la sua completa ignoranza sul tema. Il sudamericano, vedendo il barista in difficoltà, gli aveva proposto di assaggiarlo.

– Tranquillo, è legale – aveva aggiunto Pablo l’uruguayo, che aveva ormai smesso di essere Paolo il sudamericano.

Il barista, tentennando e guardandosi attorno, aveva bevuto rapidamente dalla cannuccia e aveva fatto una piccola smorfia che non era passata inosservata ai vecchi seduti fuori dai tavolini che si stavano godendo la scena.

– È bollente e amarissimo.

– Bisogna farci l’abitudine.

Poi l’uomo si era bevuto tutto d’un sorso il suo Fernet e se ne era andato, facendo soltanto un cenno di saluto al barista e ignorando la restante fauna che popolava il piccolo bar di paese. I giorni seguenti aveva cominciato a frequentare il bar un paio di volte al giorno per ordinare il solito Fernet. Qualcuno aveva millantato di avergli rivolto la parola o di averci addirittura chiacchierato. Le voci avevano riportato che si era innamorato dell’Uruguay, delle sue vastissime praterie, delle sue vacche, che erano due o tre per abitante, e poi di una donna bellissima. Le voci avevano anche aggiunto che, con quella stessa donna bellissima, aveva costruito una piccola casetta di legno, vetri e paglia nei pressi di Cabo Polonio, dove c’erano dune in riva all’oceano che ricordavano il deserto, dove mancava la corrente elettrica e dove potevano starsene, per intere nottate, sotto quel tetto di cielo a scrutare milioni di stelle. 

Forse queste erano soltanto le voci che un piccolo e noioso paese amava alimentare. A ogni modo, il resto del tempo se ne restava tappato in quell’abitazione colma di crocifissi, centritavola e ricordi che nemmeno gli appartenevano più.

Dopo tre settimane, di primissima mattina, i curiosi notarono che le imposte dell’abitazione erano tutte sigillate. La notizia si era già diffusa per tutto il paese alle dieci circa. L’unica certezza era che se ne era andato per sempre. Al bar, in chiesa e al mercato erano cominciate le scommesse e le teorie su dove si fosse cacciato. Qualcuno aveva ipotizzato che se ne fosse andato nelle alte montagne svizzere ad allevare vacche, o magari capre, chissà; qualcun altro che se ne fosse tornato in Uruguay.

Il giorno dopo la sua partenza, le finestre della casa erano state addobbate da un paio di giovani rampanti dal passo determinato e mascherati con giacche, cravatte, scarpe e occhiali neri, con dei cartelli arancioni con scritto “vendesi” e il nome di quell’agenzia immobiliare della cittadina più vicina.

– Vampiri immobiliari! – aveva sentenziato un vecchio saggio che se ne stava su una sedia del bar a bere il solito bianco.

Le voci attorno a Pablo l’uruguayo avevano ripreso ad adagiarsi sul paesino con l’intensità di una nevicata invernale, di quelle che bloccavano tutta la valle, e avevano continuato a farlo per mesi o forse anni, fino a rallentare: succede sempre così nei piccoli paesi di provincia, visitati solo di rado dalle novità. Con l’esaurirsi delle voci, era rimasto soltanto il pensiero, sporadico e sempre celato, di quell’uomo che amava bere quel misterioso intruglio alle erbe, magari consumando nottate, fra i milioni di stelle di quel cielo infinito.