– E adesso, – disse Amanda – come ce lo metto quest’orso dentro la mia auto?
L’orso se ne stava con le quattro zampe sul marciapiede, corpulento e irremovibile.
Era un orso grosso, un orso bruno, e da un po’ di tempo si aggirava per il quartiere, proprio davanti alla casa di Amanda.
A suo modo di vedere, bisognava sbarazzarsi dell’orso, ma non era come buttare la spazzatura a fine settimana. Si chiese se potesse caricarsi l’orso in macchina per portarlo in mezzo al nulla e lasciarlo lì, come fanno i poliziotti con gli ubriaconi del posto.
Poteva legarlo sul tettuccio?
No. Era quasi sicuramente più pesante dell’auto.
L’orso sedette sul suo ridicolo pezzetto di coda, sollevò la testa in aria e sbadigliò. Si spalmò sul cemento e si strappò un ciuffo di peli dalla gamba posteriore con i lunghi denti gialli, facendo schioccare le fauci.
Ne ho avuto abbastanza per oggi, pensò Amanda, e rientrò in casa. Si mise a osservare l’orso dall’alto della finestra della sua camera, facendo finta di non guardarlo.
Passarono lì davanti diverse persone, con addosso magliette comode e pantaloncini, che lanciavano delle occhiate all’orso, ma non sembravano curarsene un granché. Attraversavano la strada per evitarlo e continuavano a camminare.
L’orso aveva una certa predilezione per il giardino di Amanda, quindi era lei a doversi occupare del “problema orso”, come qualcuno dei suoi vicini aveva scritto e sottolineato su un biglietto giallo lasciato educatamente sotto la porta nel retro.
Ma Amanda non sapeva che cosa farsene dell’orso. Si sporse dalla finestra e lo guardò, ammirando l’alta gobba della sua schiena, mentre si chiedeva che cosa potesse mai volere da lei.
Per un po’ di tempo non accadde nulla. Poi l’orso si scosse e lentamente si mise a camminare verso la casa di Amanda, annusando l’aria. Il respiro dell’orso era profondo e animalesco e Amanda si sentì la sua preda. Indietreggiò cautamente dalla finestra. L’orso si mise in piedi, agitò le zampe nell’aria e poi si appoggiò a un muro della casa. Le fondamenta sussultarono e un artiglio volteggiando si posò sul davanzale. L’orso si stirò, starnutì, e poi si lasciò ricadere a terra.
Amanda vagò per le stanze, si sentiva come in un luogo estraneo. Il sole cominciò a impallidire, e lei accolse il tramonto. Chiuse gli occhi a tutto ciò che stava succedendo fuori.
La mattina dopo Amanda gattonò verso la finestra di camera sua. Quest’orso, pensò, mi sta facendo diventare come lui! Che cosa ci faccio a quattro zampe? Appoggiò il mento sul davanzale di pino levigato e guardò fuori. L’orso era lì, sdraiato al suo solito posto nel prato, la osservava. Le sue spalle erano incurvate, rotondeggianti come montagne erose, e pesanti ombre pendevano dai bottoni scuri che erano i suoi occhi. Era ovvio che quell’orso non sarebbe andato da nessuna parte. Amanda scese le scale e aprì la porta di casa.
– È ora di trovare un accordo – disse.
Lasciò la porta aperta e indietreggiò. Casa sua era rivolta a est e mentre l’orso si alzava in piedi le oscurava il sole dell’alba. L’orso salì gli otto scalini della veranda in un passo solo e la seguì nel salone. Annusò i battiscopa e strofinò la schiena contro i muri. Si muoveva per la casa con calma e familiarità, come se avesse pianificato di entrarci già da tempo.
Quella notte Amanda fu svegliata da un respiro pesante sulla sua nuca. Si girò molto lentamente e vide al chiaro di luna la grossa testa squadrata dell’orso appoggiata sul cuscino accanto al suo. Si alzò più silenziosamente che poté e scese di sotto per andare a dormire sul divano. Si avvolse in una coperta ruvida che faticava a coprirle la punta dei piedi. L’oscurità non portò sonno, ma una luminosità di pensiero che le impediva di dormire. L’irregolarità della sagoma del suo corpo spezzava appena la superficie liscia dei cuscini, mentre lei si tormentava per la sua sventura. Voleva che la vita fosse un patto, nel quale poteva chiedere che cosa doveva dare e che cosa invece avrebbe ottenuto in cambio. Ma attorno a lei c’era solo il grave brontolio dell’orso che inspirava ed espirava.
La mattina dopo Amanda si svegliò e pensò: “Che diavolo, ma perché quest’orso non mi ha ancora mangiata?”
Salì le scale in punta di piedi. Il sole cadeva sul pavimento della camera da letto in un triangolo di luce. Riusciva a vedere la massa dell’orso, raggomitolato su se stesso, con la bocca mezza aperta mentre russava piano. Che razza di orso era quello? Sospirò e si fece una doccia, salì in macchina e guidò fino al lavoro. L’orso la seguì. Lo riconobbe nello specchietto retrovisore muoversi a grandi passi attraverso i campi come un qualche strano incrocio tra un leone e un ominide, con quelle rotonde e assurde tazze da tè al posto delle orecchie, in cima alla sua testa infossata.
Parcheggiò al solito posto, spense la macchina e aspettò, ascoltando lo schioccare e il ronzare del motore che si placava dopo il viaggio.
L’orso zoppicò per il parcheggio, un enorme rivolo di bava pendeva dalle sue fauci affannate. Si sdraiò dietro la macchina di Amanda, come morto.
È inaccettabile. – disse Amanda.
Entrò e si sedette alla sua scrivania. Le finestre dell’ufficio davano tutte sul lato opposto rispetto al parcheggio, quindi non c’era modo di sapere cosa stesse facendo l’orso, lì dietro. I colleghi di Amanda stavano seduti e battevano sulle loro tastiere. Si alzavano per riempire le tazze di caffè, lamentandosi del tempo che non passava, come facevano sempre.
Nessuno disse niente sull’orso. Che strano, pensò.
Verso l’ora di pranzo, Amanda mangiò un panino freddo e cercò di non pensare all’orso, tutto solo, lì fuori sull’asfalto caldo accanto alla macchina.
Quando finì di mangiare andò nella cucina comune e riempì d’acqua un’insalatiera di plastica. Portò la ciotola traboccante fuori nel parcheggio e la posò davanti all’orso. Lui dormiva. Per Amanda fu una delusione terribile. Sperava almeno in un cenno di ringraziamento. Rimase lì a guardare per qualche minuto la pelliccia che si alzava e si abbassava e poi rientrò dalla porta di acciaio, attraverso il corridoio illuminato da lampade fluorescenti e si mise di nuovo alla sua scrivania.
Quella sera guidò piano con l’orso che passeggiava accanto a lei.
Arrivati a casa, l’orso si distese sul pavimento del salotto come un tappeto vivo. Lei si sedette vicino, non abbastanza coraggiosa da appoggiare i piedi sul bordo delle sue grosse gambe pelose.
Decise di chiamare l’orso Eric.
Venne fuori che Eric era il tipo di orso a cui piacevano le passeggiate serali, poco prima di andare a letto. Gli piaceva anche strusciarsi contro le macchine parcheggiate come un gatto e durante l’inverno aveva l’abitudine di andare giù al lago per poi tornare a casa con la pelliccia pesante per il ghiaccio.
Vivere con Eric significava condurre una vita tranquilla, diversa da come Amanda se l’aspettava. Ma il tempo passava ed Eric invecchiava.
Ultimamente Amanda ha notato che Eric fa fatica a camminare. C’è qualcosa di inquietante nella sua fragilità mentre esita al fondo delle scale. Pende a sinistra e usa una gamba come stampella per le altre tre. È vecchio, ma non ancora morente. Quando morirà, Amanda si ricorderà di quei primi giorni, quando lui era giovane e si metteva a letto con lei, con il respiro pesante sulla sua nuca, mentre lei aspettava e sperava solo di essere divorata, cosicché questa storia potesse finalmente finire.
Un ringraziamento speciale alla rivista letteraria «American Chordata» per averci concesso di tradurre e pubblicare questo racconto.