Tutto finì così. Un giorno d’estate, mio padre tornò a casa con una carabina e una pistola: era la riproduzione di una magnum sei colpi calibro 45 nera. Entrambe erano ad aria compressa ed entrambe caricavano piccoli proiettili di piombo, con la differenza che la carabina di papà era a colpo singolo. Ero affascinato da quelle armi. In confronto la mia fionda casereccia non valeva nulla. Scagliavo sassolini sulle macchine dei vicini, ma non facevo un gran danno. A undici anni, abitavo in una casa di campagna in un posto che si chiamava “Villaggio Fico d’India”. Una serie di villini confinanti e in bilico su un monte, al limite dell’abusivismo edilizio. I villini erano tutti un po’ uguali, giardino davanti e giardino sul retro, che tra i due era il più grande e selvaggio. Lì l’occhio dei vicini non arrivava: era un bosco dimenticato con un cimitero di roba abbandonata. Grill arrugginiti, vecchie bici, arnesi dismessi, cose così. Era il posto più divertente per giocare, dove si poteva distruggere indisturbati. Ancora più bello però era spaccare a casa degli altri: bastava saper scavalcare, e io ero un mostro. Tutti dicevano che eri grande se sapevi scavalcare, e io scavalcavo ogni cosa. Le cancellate di due metri che mi separavano dai vicini erano una passeggiata. Che goduria era, ridurre a un colabrodo con la mia fionda le pale di fico d’India della signorina Petralia. Vecchia strega, mi sequestrava sempre il pallone quando l’arroccavo da lei. Non ne ho mai ritrovato uno, di pallone. Ero arrivato a pensare che avesse una stanza dei trofei.
A contribuire a questa distruzione, limitata dai miei scarsi mezzi, furono quelle due armi, e una in particolare, la pistola. Tutti i giorni nel tardo pomeriggio io e mio padre sparavamo a piccoli bersagli di carta, lui con la carabina e io con la pistola. Li disponevamo sui gradini di pietra del giardino sul retro, a distanze diverse. I miei bersagli erano i più vicini, ma non perché fossi scarso. La distanza dipendeva solo dalla potenza di fuoco: la pistola, meno potente della carabina, non arrivava lontanissimo. Era bella la carabina, calcio e impugnatura in legno lucente, canna nera opaca e mirino telescopico. Semplice e perfetta.
Mi piaceva sparare a quei bersagli di carta, ma stava diventando un po’ noioso. La carta, non c’era soddisfazione a stracciarla. A pensarci bene potevo farlo tranquillamente anche con la mia fionda. Volevo di più.
– Papà, ma se spariamo alle lattine di birra? Ieri ne abbiamo buttate un sacco dopo la grigliata. Possiamo? Voglio vedere come si distruggono.
– Ma sì, valle a prendere – disse con un sorriso e lo sguardo contento.
Tornai con le lattine e un sorriso gigantesco. Le sistemai alla solita distanza, alcune erano troppo schiacciate e avevano bisogno di qualche supporto per rimanere in piedi. Feci i gradini di corsa e raggiunsi mio padre.
– Inizia tu. – Mio padre sapeva benissimo che non vedevo l’ora di bucare quelle lattine.
Tirai il grilletto e il proiettile colpì la lattina. Fece un salto e poi cadde a terra come morta.
– Bravo, Gio! – Corsi verso la lattina mia vittima. Trafitta da parte a parte. Con la fionda l’avrei soltanto ammaccata un po’. Eppure ancora non mi bastava, la lattina era comunque troppo poco per i miei gusti. Nel giro di poche ore avrei alzato sempre di più il tiro.
– Papà, possiamo sparare a un limone? – Lo bucai, ma poco danno.
– Spariamo a una carruba? – Si spezzò a metà e un frammento volò sullo scalino più alto.
– Vediamo cosa succede a una macchinina di ferro? – Le feci saltare una ruota. Poi tirai un secondo colpo, ma venne via solo un po’ di vernice bianca e la portiera si deformò.
Volevo di più, non sapevo cosa esattamente, ma di più. Dopo i primi caricatori mi abituai subito a quella potenza di fuoco. Provai a colpire altre cose ma non riuscivo a trovare l’equilibrio esatto tra la potenza della pistola e l’effetto sull’oggetto. Volevo qualcosa che sotto le mie scariche di proiettili si sarebbe spezzata per sempre. Qualcosa che non sarebbe stata più la stessa. Volevo questa soddisfazione.
– Dai, Gio, facciamo gli ultimi tiri e poi basta, che tra poco torna la mamma e si cena.
– Ok, papà – risposi col broncio. Ero deluso, insoddisfatto, non potevo smettere adesso.
– Papà, posso sparare a una bottiglia di vetro?
– Assolutamente no. È pericoloso.
– Dai! Perché?
– Potrebbe finirti una scheggia in un occhio. No, Gio. Non se ne parla.
Speravo che vedere brillare la bottiglia in minuscoli pezzettini avrebbe potuto mandarmi a letto più sereno.
Ma in realtà desideravo solo una cosa, la vera distruzione, e pensai di ottenerla con un semplice cambio d’arma.
La carabina sparava fortissimo e lontanissimo ed era anche molto precisa: cosa da non sottovalutare, con quel mirino telescopico potevi colpire qualcosa esattamente nel punto che volevi. Mio padre faceva centro da più di 50 metri in un bersaglio che aveva il diametro di un sottobicchiere.
– Papà, posso provare a sparare con la carabina?
– Un tiro solo però.
Non potevo crederci.
– Grazie! – gridai euforico. – Ma come, un colpo solo? Non ci ho mai sparato, fammi fare un paio di prove, per favore.
– No, no, uno basta. Tempo che rimettiamo tutto in ordine e la mamma sarà già tornata, vorrà cenare.
– Ti prego…
– Non fare così. Sono sicuro che prenderai il bersaglio al primo colpo.
– Ok, papà. Se lo dici tu ci credo – dissi contento, abbracciandogli il collo.
– Per prima cosa, appoggiati alla spalliera della sedia per sparare, la carabina è pesante.
– No, voglio sparare come te.
– Pesa troppo, potrebbe caderti di mano e sparare un colpo.
– Secondo me, pensi che non ce la faccio a tenere il fucile. Fidati che ci riesco.
– Gio, non m’interessa, ti ho detto che è pericoloso. Se parte un colpo… Guarda, non ci voglio neanche pensare. O fai come dico io o la chiudiamo subito.
– Va bene, papà, mi appoggio alla sedia. – Cavolo, se era pesante. Non avrei potuto tirare a niente, le mie braccia avrebbero tremolato come alla guida di un trattore. Come al solito, mio padre aveva ragione. E mi appoggiai alla sedia.
– La carico io per te.
– Fammi provare.
– La leva è durissima, credimi – disse tirandola.
– Ok. – L’osservai tirare la leva, notai per la prima volta lo sforzo del suo braccio e capii che la leva era davvero dura, come aveva detto lui.
Mostrandomi quello che teneva sul palmo mi disse: – È sempre un proiettile calibro 4,5 mm, ma penetra di più. Vedi, ha la punta conica. – Toccai la testa appuntita del proiettile e sorrisi. – Li ho comprati ieri pomeriggio. Vuoi sparare con questo?
– Sì, bellissimo! Grazie papà! Scusa per prima, per la leva e la cosa della sedia. Hai sempre ragione. – Gli feci un sorriso così grande che mi facevano un po’ male le guance.
– Prego, a te l’onore – disse, spazzolandomi la testa con la mano.
– Non li hai mai usati?
– No, questi li ho presi solo per te. Io continuerò a usare quelli a testa piatta. A me piace di più il tiro di precisione. Quelli a punta servono più per divertirsi.
Proprio non lo capivo, mio padre: mi sembrava un po’ esagerata quella sua fissazione per la precisione. Sarà che per me un buon colpo era prendere un pupazzetto dei Puffi dritto in testa, che importava se al naso o in fronte. La testa volava via che era uno spettacolo!
– Dai, è pronta, vieni qui. Allora, ascolta bene le mie istruzioni e colpirai esattamente dove miri. – Annuii serio. – Premi il calcio della carabina contro la spalla o il rinculo ti farà male. Poggia la guancia sulla canna e leva la sicura. – Impugnai il fucile con fermezza come se stringessi la mano a un adulto. – Allarga i piedi e piega un po’ le gambe. Ora mira. – Misi l’occhio nel mirino e puntai. – A cosa stai mirando, Gio?
– Al bersaglio di carta – mentii. A me non fregava nulla della precisione, volevo solo vedere come si distruggevano le cose. Il mio obiettivo era una tegola in laterizio, che avevo usato come sostegno per far stare dritta una lattina, stava sull’ultimo gradino. A quella distanza, con la carabina, ero sicuro che la tegola si sarebbe distrutta come un piattello, in una nuvola di frammenti rossi.
– Mi raccomando. Non dare uno strappo al grilletto, ma tiralo poco a poco con la punta dell’indice. Il colpo partirà senza che te ne rendi conto. – Feci un respiro profondo e tirai lentamente il grilletto, fissando la tegola nel mirino. La pressione del mio indice aumentava e poco sopra la tegola rossa apparve all’improvviso, come il verde di un semaforo, la testolina di una lucertola. Espirai e tirai del tutto il grilletto. Il colpo partì di botto. Gli occhi della bestiolina scoppiarono di rosso e di verde. Il proiettile le aveva trapassato il cranio da parte a parte.
– Gio, ma dove hai sparato? Ero certo che ce l’avresti fatta. Forse il mirino è regolato male? – Il mirino era perfetto, l’immagine a fuoco. Mi ero visto scoppiare la testa di quella lucertola in primissimo piano e ad alta definizione. La mia fame di distruzione si era saziata. Avevo attraversato una soglia che non pensavo d’oltrepassare.
DISTRUGGERE UNA COSA VIVA.
– Papà, scusa.
– Non mi devi chiedere scusa se hai mancato il bersaglio.
– No, papà, io l’ho preso – dissi come ingoiando una pietra ruvida.
– Ma che hai preso? A cosa stavi mirando?
Abbandonai la carabina e lo presi per mano, non riuscivo a dirgli quello che avevo fatto, e lo portai a guardare cosa c’era dietro la tegola. Eccola lì molle come un pezzo di corda, la lucertola senza testa.
Strinsi forte la mano di mio padre.
– Papà, sei arrabbiato con me?
– Hai sbagliato, ma sono sicuro che non l’hai fatto apposta. – Mi diede una carezza bellissima che scivolò dolce sulla mia guancia. Mi aspettavo un rimprovero e un castigo eterno, pensavo avesse capito che avevo mirato proprio alla testa.
– Lo dirai alla mamma?
– Non capirebbe. – Poi mi baciò sulla fronte e io mi punsi con la sua barba.
– Mi dispiace. Riposa in pace, lucertolina – sussurrai nell’orecchio di mio padre. Mi sentivo strano ma non ero pentito. Non so cosa mi spinse a dirgli così, ma mi sentii grande quando capii dai suoi occhi di avergli detto quello che voleva sentirsi dire.