Prostitute, disertori e avventurieri, grazie di non sostenere la pace sociale
(sul muro di una città)
Sono seduta in un’aula dell’università quando viene dichiarata l’indipendenza del quartiere. La mia professoressa legge Gadda: è il finale della Cognizione del dolore, io ho gli occhi socchiusi e sono seduta insieme a un altro centinaio di ragazzi ad ascoltarla. La porta dell’aula si apre ed entra un ragazzo che con un megafono ci dice: – Gli abitanti di Borgo Dora stanno combattendo, unitevi!
Apro gli occhi. Ci alziamo tutti dalle sedie, ma una volta in piedi rimaniamo immobili: è sceso il silenzio, e non sappiamo cosa fare. Anche la professoressa è in piedi dietro la cattedra, e dice al microfono: – Credo che dovremmo andare a vedere cosa succede. – Usciamo dall’aula portandoci dietro solo i cappotti e il fiume di gente ci travolge, spingendoci fuori dall’atrio dell’università, ammassandoci sulle scale.
Per strada si sentono le sirene, e si è alzata la nebbia dei fumogeni che alcuni ragazzi tengono in mano. Senza volerlo ci ritroviamo tutti dietro a un lungo striscione di cui non riesco a leggere la scritta: sto marciando per qualcosa che non conosco, e non ho avuto la possibilità di scegliere. Sento che mi afferrano il polso destro, mi volto ed è Flavio che mi dice: – Corri! –, mi tira il braccio e insieme superiamo i ragazzi che tengono lo striscione. L’ultima cosa che vedo, mentre cerco di leggere la scritta che ci siamo lasciati alle spalle, è la polizia che carica la folla di cui fino a pochi istanti prima facevo parte. Poi i ricordi si confondono, il fumo mi entra negli occhi e inizio a lacrimare.
Su quelle scale ci rivedo giovani e coraggiosi mentre ci facciamo largo tra la folla. Siamo ancora amici, e forse lo siamo davvero per l’ultima volta, anche se non lo sappiamo ancora.
Passano due settimane e io sono a casa a studiare, il campanello suona e c’è Flavio fuori dalla porta.
– Ma dov’eri finita? – mi chiede mentre entra in casa e si toglie la giacca. – Sono giorni che non ti si vede all’università.
Sul tavolo della cucina ci sono i miei libri aperti, illuminati dalla luce di febbraio che entra da fuori.
– Non mi sentivo tanto bene –, rispondo, mentre prendo dalla credenza il caffè e lo metto nella moka.
– Dovresti vedere cosa sta succedendo – si è acceso una sigaretta e ha aperto la finestra, per non lasciare nella stanza l’odore del fumo. Ma muove le mani freneticamente, non sta fermo, fa avanti e indietro per la cucina, quindi la precauzione è inutile. – Pazzesco, davvero. Si è creato questo gruppo di supporto agli abitanti di Borgo Dora. Ci riuniamo e discutiamo di come gestire questa transizione epocale.
Non gli dico che all’università ci sono stata il giorno prima, e ho visto le decine di persone accampate nell’atrio coi sacchi a pelo. Che sono arrivata fin davanti all’aula per scoprire da un foglio scritto con un evidenziatore verde che le lezioni erano state sospese fino a data da destinarsi. Che me ne sono andata via sperando di non venire in alcun modo coinvolta; sperando di non incontrarlo.
– Ci riuniamo? – gli chiedo invece. Lo guardo in faccia e noto le occhiaie, i capelli sporchi, le ciglia cispose. – Hai dormito lì? Vuoi farti una doccia?
Mi ignora e butta la cicca di sigaretta giù dalla finestra. – Sono venuto a prenderti: andiamo in Borgo Dora – mi dice e prende la giacca che aveva appoggiato sulla sedia. – Sono riuscito a ottenere un’intervista con gli abitanti del quartiere. Ti rendi conto?
Scriviamo insieme su una cosa che non è nemmeno un giornale, è più che altro un blog, una pagina che abbiamo fondato il primo anno di università con degli ex compagni di scuola, un modo come un altro per tenere tesi i fili che ci legavano, e che dopo qualche semestre già iniziano ad allentarsi. Mi chiedo come ci sia riuscito. Gli abitanti non parlano con nessuno: è da due settimane che si sono isolati dal resto del mondo e non parlano con nessuno, mentre tutti parlano di loro, organizzano assemblee, scrivono articoli. Ascolto il rumore del caffè che gorgheggia nella moka e penso che è da tanto che non vedo Flavio così entusiasta, così pieno di voglia di fare. Si è già infilato la giacca e mi dice: – Oh, allora?
Io ho addosso un maglione e dei pantaloni della tuta, capisco subito che non voglio, ma lo seguirò. – Aspetta, vado a cambiarmi… – ma lui mi dice che non c’è tempo, che ci aspettano, e che tanto nessuno si formalizzerà. Mi chiede se ho del cibo da portare lì, ma la dispensa è vuota: afferro un pacco di pasta, qualche scatoletta di tonno, mentre lui è già sul pianerottolo che aspetta l’ascensore. Chiudo la porta; il caffè è salito ma nessuno di noi l’ha bevuto, e rimarrà a raffreddarsi nella moka.
Flavio ha gli occhi chiari e porta gli occhiali senza montatura; ci siamo conosciuti al liceo durante un intervallo, mentre lui litigava con un barista sulle proporzioni di latte che fanno la differenza tra latte macchiato e caffellatte.
Per arrivare al quartiere decidiamo di camminare; non è lontano, e d’altronde non ci sono alternative. Gli autobus vengono bloccati, i cavi elettrici dei tram sono stati tranciati e nessun mezzo non autorizzato può entrare nell’area sorvegliata. Flavio cammina con passo sostenuto davanti a me e io gli sto dietro a fatica: spinge un carrello pieno di cibo lungo il viale che costeggia la Dora. È un febbraio mite, e l’aria invernale è frizzante, mi pizzica le gambe sotto i pantaloni della tuta.
– Potresti rallentare? – gli chiedo, ma lui neppure mi sente mentre attraversa di corsa la strada: così sono obbligata a correre anche io, e a mostrare i palmi delle mani agli automobilisti, in segno di scusa. Mi sento come quando avevamo quindici anni, e ci lanciavamo con la bici giù per la discesa dei Cappuccini: chi frena per ultimo ha vinto. Lui vinceva tutte le volte. La città sembra uguale a sempre, se non fosse per i cassonetti ribaltati, e le macchie di sangue sui marciapiedi che nessuno ha lavato via.
– Guarda lì! – urla Flavio, che si sbraccia indicando un punto sull’altra sponda del fiume: sopra una pompa di benzina abbandonata qualcuno ha appeso un lenzuolo su cui c’è scritto: “Senza stati non esistono frontiere”. Prendo dalla tasca del maglione il cellulare e provo a fare una foto, ma Flavio mi dice di sbrigarmi e per la fretta non lascio che la fotocamera metta a fuoco la scritta: sullo schermo rimarrà la pompa di benzina sfocata e, alle spalle, le montagne bianche di neve.
Ogni tanto Flavio prende la rincorsa e salta sul carrello, piegando il busto in avanti per prendere velocità: guardo la sua schiena allontanarsi, le ruote che deviano e lo fanno andare a sbattere contro i muri, mentre lancia dei gridolini. Sembra un bambino e sembra felice. Da quando abbiamo iniziato l’università è diventato cupo, difficile da decifrare, quasi ostile: si è rinchiuso spesso in un silenzio impenetrabile, e un giorno, quando gli ho chiesto cosa gli fosse successo, mi ha rimproverata di aver smesso di sfidare la discesa dei Cappuccini insieme. – Sono cose da ragazzini – gli ho risposto. Lui mi ha guardato con disprezzo e mi ha chiesto: – E tu cosa saresti, un’adulta?
La Dora scorre alla nostra sinistra, è oleosa, grigia: non assomiglia affatto alle acque del Po. Conserva in sé l’impeto della montagna, e si trascina dietro rifiuti, siringhe, carcasse di ratti.
Arriviamo al Ponte Carpanini e io non me l’aspettavo così, e inizio a capire che tutto questo è vero e che ho paura. L’accesso al ponte è sbarrato da cassonetti rivoltati, un’auto parcheggiata di traverso, barricate di immondizia e scatoloni: i passaggi pedonali, due passerelle di acciaio costruite sui lati del ponte, sono controllati da alcune sentinelle. Hanno in mano spranghe o manganelli di legno. Flavio si avvicina per parlare con uno dei ragazzi e sembra che si conoscano: non riesco a sentire cosa si dicono, ma mi accorgo che quel manganello non è che un mattarello da cucina a cui il ragazzo (alto, con un cappello che gli copre la fronte e le sopracciglia) ha appiccicato una banda di nastro adesivo colorato all’altezza dell’impugnatura.
– Siamo qui per parlare con Lucio – dice Flavio alla sentinella, alzando la voce. Il nastro adesivo è uno di quelli decorati: tra le dita della sentinella corre la scritta “I love you”. Flavio mi fa cenno di raggiungerlo, ché possiamo passare, e va avanti. Mentre camminiamo sulla passerella di grate penso che questa che sto attraversando sembra proprio una frontiera. Lo penso ma non lo dico. Dico però, a bassa voce: – Flavio, torniamo indietro – perché ho capito che ho paura e non lo voglio fare. Ma Flavio ha già attraversato il ponte e non mi sente, mentre cammina verso la piazza. Abbasso lo sguardo e sotto i miei piedi scorre il fiume, e io continuo a camminare.