Anita contava i centavos sul letto. Ne aveva accumulati tanti ormai, mese dopo mese, dovevano bastare. Le monete tintinnavano l’una sull’altra come conchiglie sul bagnasciuga. Cento centavos fanno una lempira. Sì, basteranno. Anita balzò giù dal letto, si riempì le tasche a manciate e si precipitò goffamente fuori dalla stanza, con due maracas al posto dei pantaloni.
Sgattaiolò quindi verso la porta d’ingresso, che era già aperta, facendo attenzione a non incrociare nessuno. In cucina, come sempre, c’era un grande andirivieni. Non solo sua madre, com’era comune nelle altre famiglie, ma anche il padre si metteva spesso ai fornelli. A volte, da lì provenivano fumi che ad Anita facevano lacrimare gli occhi, così preferiva non entrarci. Del resto, meglio non disturbare gli adulti, come ripeteva la mamma.
Fuori si respirava un buon profumo di ozono, di acqua e di terra, tipico di quel periodo dell’anno a Yoro. Uno sguardo alla strada: un po’ troppo affollata. Anita la attraversò e si infilò nella foresta, correndo tra le fronde e schivando le radici che affioravano dal terreno in discesa, agile come una scimmietta. All’improvviso, un grosso pappagallo rosso le tagliò la strada a un centimetro dal naso, lei inciampò e piombò sulla via principale, bocconi. Un tale che passava in motorino per poco non la investì, evitandola con una rapida sbandata, ma non si fermò, come se a Yoro fosse normale che i bambini sbucassero dalla foresta rotolando.
– Merda! – disse Anita. E poi, abbassando la voce, come per scusarsi – Cavoli!
Non si era certo fatta bene. Di nuovo in piedi, qualche pacca sui pantaloni luridi, un’aggiustatina all’elastico dei capelli, ed era pronta a ripartire.
Il negozio era uno di quei posti dove si vendeva di tutto, dal pane alle batterie per automobili. La signora al bancone si stava limando le lunghe unghie smaltate, che la facevano sembrare un grosso bradipo, piuttosto che una pantera come invece avrebbe voluto.
– Niña! Che ti è successo? Dov’è tua mamma?
Anita tirò dritto con sicurezza senza risponderle, oltrepassò il reparto alimentari, lo scaffale delle calzature e quello con gli attrezzi da giardinaggio. Davanti all’anfora piena di ombrelli, ne esaminò attentamente il contenuto. Dopo qualche minuto, con solennità, estrasse un ombrello azzurro. Era lui.
Alla cassa, la signora sentenziò: – Una lempira.
Anita si frugò nelle tasche, afferrò i suoi centavos sporchi di terra e, un pugno dopo l’altro, li depositò nel piatto. La signora la guardò stupefatta e per tutta risposta ricevette un sorrisone tirato da parte a parte.
Con l’ombrello sotto braccio, sulla via del ritorno Anita si imbatté nella statua del venerabilissimo Manuel De Jesús Subirana, proprio al centro della piazza principale. Un grand’uomo, non lo si poteva negare, dispensatore di opere di bene e amico dell’antico popolo honduregno. Anita gli si piantò davanti, con le mani sui fianchi e uno sguardo di sfida, quello sguardo furbetto e un po’ sciocco di chi crede di saperla lunga ma in realtà sa ben poco. La scenetta durò diversi secondi, tanto che qualcuno che passava di lì ne rise. Una formica davanti a un giaguaro. Ma le formiche, malgrado le piccole dimensioni, sono molto forti e questo Anita lo sapeva: lo aveva visto a scuola, in un libro c’era la foto di una formica che trasportava un rametto grande cinque volte lei.
Meglio rientrare, pensò guardando l’orologio della chiesa, come se sapesse leggerlo. Rifare la strada nella foresta in salita fino a casa era un po’ troppo faticoso, perciò questa volta imboccò la via asfaltata. Gli occhi all’insù, Anita fissava i nuvoloni di carbone che si addensavano fino all’orizzonte e pensava che la festa era vicina. La lluvia de peces stava arrivando. Le sembrava passato un giorno – invece che un anno – dall’ultima volta. Sarebbero di nuovo usciti tutti, una volta finita la tempesta, a raccogliere in fitte reti o in catini capienti quanti più pesci possibile. I bambini avrebbero fatto a gara a chi ne trovava di più. Le vecchie avrebbero cantato e ringraziato il cielo per quella manna iridescente. Ci sarebbe poi stata di nuovo la parata dei carri e tutti avrebbero ballato intorno ai falò fino a notte fonda.
– Ma com’è possibile che piovano pesci dal cielo? – aveva chiesto Anita a scuola.
– Beh, di solito piove acqua, se c’è acqua lassù ci saranno anche i pesci, no? – le aveva risposto Teresa.
– Mio padre – aveva detto José – dice che è un tornado che risucchia i pesci dal mare e viene a risputarli qui.
Il padre di José lavorava nella capitale come bibliotecario. Per i bambini era una specie di autorità scientifica.
Tutti gli altri, comunque, erano convinti che quello era nientemeno che un miracolo e che al massimo dovevano ringraziare il santo patrono di Yoro.
Rientrando a casa, Anita trovò la madre indaffarata ad ammucchiare sacchi di sabbia vicino all’uscio. Lì accanto giacevano bacinelle di tutte le dimensioni.
– Mamma, qualcuno ha mai visto i pesci cadere dal cielo?
– Beh, certo, accade da centinaia di anni, li hai visti anche tu no, señorita?
– Ma tu li hai mai visti mentre cadono? – la incalzò Anita.
– Impossibile, non si può uscire durante l’uragano, lo sai, si rischia di essere spazzati via!
La conversazione fu interrotta bruscamente, la porta si spalancò sbattendo contro il muro, un uomo entrò sbraitando.
– Dov’è quell’hijo de puta?
– È fuori, aveva una consegna… – rispose la madre, con compostezza.
– Abbiamo perso un carico – continuò quello, con le mani sui fianchi molli, petto e pancia in fuori – farà meglio a risolvere, prima che lo trovi io.
Ad Anita, le parolacce non la turbavano, ne sentiva così tante ogni giorno. Però non tollerava che si parlasse così di suo padre. La familia è importante, come gli sentiva ripetere sempre. Sbucò fuori da sotto il tavolo dove si era nascosta e gli puntò il dito contro.
– Prima di entrare si bussa, testa di culo!
L’uomo rimase lì impalato a guardarla, senza sapere cosa dire, con la faccia del maiale selvatico che grufolando in terra alla ricerca di tuberi si ritrova davanti una talpa. Poi si ricordò che era un duro, lui, e le si scagliò contro. Anita si ricacciò sotto, per uscire dalla parte opposta. L’altro girava intorno al tavolo, tra grugniti e bestemmie, impigliandosi con la canotta lasca alle sedie.
– Yago! Lasciala stare! È solo una bambina!
Quello allora si fermò ansimando, poi si avvicinò lentamente alla donna. Si portò vicino al suo orecchio. – Hai ragione, è solo una bambina – sussurrò facendole sentire il suo fiato caldo – ma ricordati che io le bambine me le mangio.
Poi tirò fuori la lingua e le leccò la guancia. La donna ebbe un brivido di ribrezzo, ma rimase immobile.
– Di’ a quell’hijo de puta che sono passato! – sbraitò infine mentre usciva di casa.
Fuori, in lontananza, si vedevano dei bagliori dietro le colline. La donna si affrettò a chiudere la porta.
– Se n’è andato, Paco. – disse – È andato via.
Paco uscì dalla cucina. Senza dire nulla prese i sacchi di sabbia che rimanevano in mezzo alla stanza, passò davanti alla moglie e alla figlia senza guardarle negli occhi, e li sistemò contro la porta di casa, ben fermi ai suoi piedi.
– E tu, señorita, – continuò la donna, incazzata e con gli occhi lucidi – sei in castigo. Fila in camera, serra le finestre e restaci. Niente festa per te.
Anita fece un lungo respiro, un’alzatina di spalle, e si avviò su per le scale. Mentre saliva, vide che sua mamma stringeva il rosario che teneva al collo. Anita al collo aveva il ciondolo di Duffy Duck che aveva trovato nelle patatine. Strinse quello.
Giunta in camera, chiuse a chiave la porta e prese la giacca a vento dall’appendino. Se la infilò lentamente, come fosse l’investitura solenne di un cavaliere. Da fuori si sentivano i tuoni crescere, come i tamburi delle tribù indigene.
Anita era salita sul letto e ora guardava fuori, appoggiata al davanzale. Guardava le prime gocce scivolare sul vetro e le nuvole scure che si muovevano come animate di vita propria: da lì sarebbero presto caduti centinaia di pesci. Chissà che mondo si nascondeva lassù. Forse un mondo simile a questo – pensò Anita – eppure diverso, un mondo senza cattivi, senza Yago, un mondo dove sarebbero stati ricchi, in cui il padre avrebbe potuto cucinare allegro tutto il giorno, dai fornelli sarebbero arrivati solo profumi dolci e fragranti, e la sera la madre non avrebbe dovuto lavorare fino a tardi, ma avrebbe potuto stare a casa con lei, metterla a letto, raccontarle le storie e rimboccarle le coperte. Allora lassù, avvolta come un baco nel suo bozzolo, Anita si sarebbe addormentata subito, senza pensieri a tenerla sveglia, cullata dal canto dei tico-tico.
Ora invece il cielo ruggiva, incatramato da mille motociclette di piombo che si accendevano in lampi intermittenti. Era il momento. Anita spalancò la finestra e venne investita da una folata in piena faccia. Si strinse nella giacca a vento e si arrampicò sul tetto.
Forse un mondo come quello che sognava non esisteva. Eppure i pesci piovevano veramente dal cielo. E ora, sul tetto di una casetta sgangherata, in un villaggio in mezzo alla foresta, su uno sputo di terra che galleggia sull’oceano di una palla di roccia allo sbaraglio nell’universo, una bambina prendeva coraggio.
Il cielo spalancò la sua enorme bocca abissale.
Anita aprì il suo scintillante ombrello azzurro.