Io, a una festa di funerale, non mi ci avevano mai invitato prima.
Al banco del check-in: uno steward e una hostess flirtano, io come se non esistessi. Stanno guardando alcune foto da un cellulare. Lei guarda il cellulare e fa finta di divertirsi molto, lui guarda lei e spera di averle fatto un certo effetto.
Mentre aspetto che mi notino, mi sembra che siano più giovani di me. Almeno, c’è la possibilità che lo siano. Inizio a chiedermelo, se la gente è più giovane di me.
Al gate: facce aeroportuali, viaggi in giornata, shopping a Via del Corso. Non incontro nessuno. Nessuno mi vede. Mi cade una goccia d’acqua proprio dritta al centro della testa: al gate D7 del Terminal 3 c’è un buchino sul soffitto, ci piove dentro. È un giorno intero che piove. Non mi sposto da là finché non chiamano l’imbarco: voglio vedere quante gocce mi cadono in testa. Ne ho contate undici.
Poi ci dicono di salire sull’aereo, imbarco immediato dicono, e devo lasciar cadere la dodicesima sul pavimento. Plin.
Il pilota ci avvisa che potrà esserci della turbolenza. Per tutto il viaggio l’aereo vibra e sbuffa come una Panda in salita.
All’arrivo la scaletta dell’aereo è viscida, la pioggia sempre inesorabile, ma l’aria è più calda.
Vado a dormire quasi subito, rimando tutto a domani.
Mi sveglio con gli occhi pesanti. Mentre mi vesto, guardo dalla finestra le scie delle macchine sulla strada bagnata. Molte tracce. Cerco il mare, so dov’è: dietro le nuvole basse. Sento il sale, nella pioggia.
Vado alla camera mortuaria senza ombrello né pensieri particolari, solo acqua in testa, gocce una sull’altra.
Alla camera mortuaria: molta gente, qualche morto. Chiedo dov’è la capofamiglia che se n’è andata ieri stanca morta. È là a destra, mi indicano.
Riesco ad arrivare alla bara, non so come, e dico ciao vecchia, prima ancora di guardare veramente nonna che è dentro, nel raso bianco, coperta da un tulle trasparente.
Dico ciao vecchia, e la guardo. Ha le mani intrecciate in modo strano, penso, e forse lo dico pure. Tanto nessuno mi sente.
Nella bara a fianco c’è un altro nonno, che è morto un po’ storto e non sono riusciti a metterlo dritto. Tutta la famiglia lo guarda dormire e la vedova gli piange in faccia e bagna il tulle e dice cose in sardo che non capisco e a un certo punto si toglie pure il velo nero e rimane così: coi capelli grigi pettinati stretti e gli occhi gonfi a fare no con la testa.
Dalla nostra parte arrivano persone alla spicciolata, alcuni si incontrano dopo anni, all’improvviso si riempie di gente. Io non mi son mosso. Sto appoggiato con la schiena alla parete a fianco alla bara, un po’ guardo nonna, un po’ mi distraggo.
Inizia un dibattito furibondo, tutto sussurrato, sul nome di nonna: se sia più giusto chiamarla Tina o Tetina.
Alla fine vince Tina, ma ogni tanto arrivano parenti lontani che dicono ciao zia Teti’, e allora si ricomincia a parlarne.
Le tre sorelle son molto stanche: dirigono il traffico dei congiunti, incanalano commozioni, animano i discorsi, raccontano per mille volte gli ultimi giorni. Si deve fare e si fa. Ognuna col suo stile.
Io sempre là, come quando contavo le gocce all’aeroporto, non mi muovo, conto le rughe di nonna.
Nonna continua a dormire e io a guardarla, conto le rughe, sono arrivato a settantatré, quando mi accorgo che la bocca un po’ si sta aprendo, cede alla gravità, e adesso, a fine mattinata, se la guardo solo da un lato sembra che sorrida, che ghigni anzi. Si sta divertendo da morire.
Quando torno a casa, mi chiudo in bagno: voglio provare a intrecciare le dita come ce le ha nonna dentro la bara, ma è impossibile, mi viene un crampo e lascio perdere.
Si mangia tutti insieme, come se fosse Natale. Tutti i fratelli, i cognati, i cugini. Ci vogliono due tavoli, diversi chili di pasta, molte bottiglie di vino. Finisce che ci luccicano gli occhi dal vino e tutti chiacchierano con tutti e manca solo che arrivi la mezzanotte per aprire i regali.
La tivù è accesa ma non la ascolta nessuno, inizia il tiggì, continua l’assurda sequenza di rapine nei negozi di caccia e pesca di tutto il mondo, l’ultima oggi in un negozio del centro, rubata attrezzatura da pesca subacquea per decine di migliaia di euro, gli inquirenti pensano ai rom.
Quando arriva il meteo io cerco di ascoltare il colonnello che ha da dire, mentre i miei zii parlano a voce alta e fumano il sigaro. Il mio zio più grande è il più triste di tutti, perché ha smesso di fumare e può solo parlare. Il colonnello dice che c’è allerta meteo nel nord Sardegna, che continuerà a piovere ancora per molti giorni, non si sa per quanto, la protezione civile è in allarme, dico, ma nessuno mi ascolta, c’è il rischio alluvione, dico, ma tutti continuano a parlare tra loro e quindi il colonnello saluta e dà appuntamento al prossimo aggiornamento, un po’ offeso.
A tavola siedo vicino alla sorella di nonna, che è un po’ pazza, decisamente diabetica e parla poco ormai. Ha ascoltato anche lei il meteo dalla sedia a rotelle e annuisce, domani secondo me piove, mi dice mentre tutti sono distratti e mentre piove da due giorni e mezzo. Ma me lo dai un goccio di mirto?, mi chiede indicando con l’unghia lunga la bottiglia ghiacciata che c’è sul tavolo. E una frittella zi’, la vuoi?, mi dice, posso? E io, e certo, zi’!, è Natale!
Zia ha i lati della bocca pieni di granelli di zucchero, beve il mirto tutto d’un fiato e mi dice secondo me, domani al funerale piangono tutti. Ne approfittano, che possono piangere senza vergognarsi, ma in realtà, ai funerali, ognuno piange per i fatti suoi. Io invece sai cosa faccio? Da una ventina d’anni, tutti i giorni, prima di andare a letto piango sempre un po’, per tre o quattro minuti dico, non di più, così quando muore qualcuno, se piango, il pianto glielo posso dedicare tutto intero e non ho bisogno di tenermene un po’ per me. È una bella idea no? Me la sono inventata io, fallo anche tu, me la dai un’altra frittella?
Dopo cena non ho sonno, mi sdraio a pancia in su. Sento la pioggia che continua a cadere, non sento nonna che russa, dovrebbe essere nella stanza accanto e invece mi ricordo che è in camera mortuaria, vicino al vecchio morto storto, coperta di fiori gialli e bianchi.
Provo a piangere come mi ha consigliato zia, per non sprecare le lacrime di domani, ma non mi riesce proprio. Penso alle lacrime e sento la pioggia. Sento la pioggia e mi ricordo dell’allarme della protezione civile e dell’alluvione imminente.
Basta.
Vado a prenderla, dico.
Passo felpato nel corridoio: devo far piano. Dalla finestra la luce gialla dei lampioni, sul pavimento, proiettate, le linee infinite delle gocce sul vetro: sembrano le rughe di nonna. Mi viene la tentazione di fermarmi a contarle, ma non ho tempo da perdere.
Sto quasi raggiungendo la porta, sono riuscito a non fare nemmeno un rumore, ma a sbarrarmi la strada c’è il gatto, il nostro gatto bulimico da guardia. Un attacco di narcolessia deve averlo colpito mentre faceva una merenda notturna, come sempre. A terra: tracce di vomito e cibo semimasticato. Poco lontano la busta dei croccantini aperta a unghiate. Non posso pensare di passare senza svegliarlo, farebbe scoprire la mia fuga. Sono in trappola.
Non mi resta che uscire dalla finestra. Del quinto piano. Apro le imposte cercando di non fare rumore, salgo sul davanzale, sotto c’è un fiume. Son quasi tre giorni ormai, l’acqua rotola veloce sulla strada e sui marciapiedi verso chissà dove, in ebollizione. Faccio un salto e riesco ad aggrapparmi al ramo dell’albero del giardino. Non l’ho mai fatto. Probabile che muoia anche io.
L’albero è grande e spoglio, i rami sono sottili, scivolo per un paio di metri ma riesco ad aggrapparmi a un ramo più resistente. Mi fermo un attimo a respirare, sono già completamente fradicio, devo arrivare al tronco e calarmi giù con calma.
Inizio lentamente la discesa, tre rami più sotto incontro una civetta che rotea gli occhi e mi dice cucù. Le dico, lo so io, lo so, cosa ci faccio appeso a un albero in mutande e calzini in piena notte, non ti preoccupare, le dico.
Crollo a terra da almeno tre metri di altezza in una gigantesca pozza di fango, mi rialzo, l’acqua mi arriva alle ginocchia. Devo correre. Devo sguazzare. Devo nuotare.
C’è fango dappertutto, ma nessuno sembra essersene accorto, è notte per tutti. Per la città e per i suoi abitanti, per i preti nelle chiese, per gli ammalati all’ospedale, per le puttane all’angolo di via dei Gremi.
Cazzo le puttane, dico. Poi mi vergogno di aver detto puttane, poi penso che non c’è nulla di cui vergognarsi e soprattutto che non c’è tempo per pensare. Piove ancora, sempre, come da sempre. Coi piedi tocco cose che rotolano sotto il pelo dell’acqua. Un topo grande come un gatto mi supera a destra nuotando fortissimo, mi guarda per un attimo come se stesse decidendo se ho bisogno di aiuto poi scorre via.
Le puttane all’angolo di via dei Gremi ci sono quasi da sempre, lo sanno tutti che ci sono. Sono sempre due. Le cerco, le vedo. Ci sono anche stanotte, immerse nell’acqua fino ai polpacci, con le tette giganti che sgocciolano strizzate nei top rossi, si tengono strette a un albero, ci ficcano dentro le unghie dipinte, per non farsi portare via dalla corrente. Mi vedono, mi urlano amore. Vieni a fare l’amore con noi. Vere professioniste.
A me mi dispiace non fermarmi a fare l’amore con loro, che magari ci rimangono male, l’alluvione sta peggiorando, il fiume di via dei Gremi e quello che arriva da via Amendola si congiungono proprio sotto il semaforo delle puttane, iniziano a formarsi dei mulinelli nella spuma. È pericoloso. Una delle due puttane perde la presa dall’albero e viene sbalzata via, la osserviamo, io e l’altra, mentre urla cazzo Irina cazzo! E scompare sotto il fango.
Irina mi urla aiuto: io nuoto verso di lei, ho perso le mutande, sono tutto nudo coi calzini neri di spugna Arena, riesco ad afferrarla per la vita e a portarla verso un punto in cui la corrente è meno forte. Ci fermiamo un secondo per riprendere fiato e per decidere cosa fare.
La città ancora non si è accorta di niente, i palazzi sembrano enormi palafitte di cinque sei piani, le macchine galleggiano, i motorini sfrecciano rovesciati sul pelo dell’acqua, i gatti randagi sembrano salmoni pelosi. Irina mi dice grazie amico italiano e mi dà un bacio lunghissimo con la lingua che non so se è umida di saliva o di pioggia. Io ho freddo.
Vieni con me, Irina, le dico. Dobbiamo andare da nonna, le dico.
In piazza dei Moti Antifeudali: troviamo un tavolo della pizzeria che galleggia rovesciato con le gambe in su, ci saltiamo sopra come se fosse una zattera, rema con le mani, rema cazzo, le urlo. Lei non lo sa cosa vuol dire rema, perché forse è ucraina, forse rumena. Comunque vede come faccio io e mi imita, riusciamo a trovare un ritmo, a risalire la corrente, mentre è iniziata una tempesta di lampi che ci illumina a intermittenza, come la luce stroboscopica di una discoteca in cui ero andato una volta che aveva nevicato.
Iniziano a sentirsi le sirene dei vigili del fuoco che scendono da via Carlo Felice a controllare la situazione che ormai è sfuggita di mano. Gli elicotteri illuminano la città dall’alto con grandi fari tondi che ispezionano il mondo sotto. La gente ha iniziato a uscire sui balconi, a salire sui tetti, a nessuno è venuto in mente di buttarsi in acqua. Ci siamo solo io e Irina che remiamo controcorrente verso la camera mortuaria.
Il primo coperchio di bara ci sfreccia a fianco appena girato l’angolo di viale S. Pietro.
Irina non capisce cosa stiamo andando a fare ma deve avere intuito che è una cosa importante perché non si ferma nemmeno un attimo a riprendere fiato, il top le è esploso nello sforzo e ora è appeso alle spalle fradicio e lei non sembra preoccuparsene, la minigonna le si è arrotolata in vita e mi accorgo solo ora che nemmeno lei ha le mutande.
Ci passa a fianco velocissima la bara del nonno morto storto, piena fino all’orlo di pioggia, quasi affondata. E dietro di lui un corteo velocissimo di bare in fila indiana, quella di nonna affronta la curva in scarroccio perfetto tutta piegata a dritta, mi sporgo dalla zattera ma non riesco a prenderla al volo. Dico cazzo.
Dico Irina invertiamo la rotta! Segui quelle bare!
Ora siamo a favore di corrente e sfrecciamo velocissimi, riesco a raggiungere nonna, ha la camicia rosa appiccicata alla pelle vecchia morta, mi attacco al bordo della bara e dico tranquilla vecchia, ora torniamo a casa. Mi tolgo i calzini, faccio una specie di corda, assicuro la bara alla zattera. Andiamo avanti così. Ma verso dove?
Il chiasso della pioggia è assordante, più delle sirene dei pompieri, più delle pale degli elicotteri. Davanti a noi c’è solo pioggia adesso. Strisce bianche come interferenze, come se il mondo dovesse spegnersi da un momento all’altro. I fulmini continuano a piombare da una parte e dall’altra, il fiume è elettrico, i tuoni sono come spari di mitragliatrice. È la guerra Irina, è la guerra, dico nudo come Adamo, in piedi sulla zattera di legno della pizzeria, mentre mi trascino dietro la bara di nonna.
Il corteo funebre fa rafting tra sacchi di rifiuti e cassonetti ribaltati, la marea ha iniziato a salire inesorabilmente, mi accorgo che siamo all’altezza dei balconi del primo piano. Il fiume è diventato ingestibile.
Dove andiamo? Mi chiede Irina coi capelli appiccicati alla fronte e la faccia nera di rimmel, noi qui muoriamo amico italiano! Non moriamo Irina, le dico, devi stare tranquilla, e poi moriamo, si dice moriamo, non muoriamo, Sei belo, amico italiano, mi dice, Olga!, urla, indicando un punto nel buio.
Aggrappata a una palo della luce, Olga si sbraccia verso di noi. Vala a salvare amico italiano! Io sto per ribattere che è pericoloso, che rischiamo di morire tutti e due, ma Irina è troppo bella e troppo nuda, e mi guarda con quegli occhi e io mi sento un pirata, un conquistatore sul Rio delle Amazzoni, un dio del fiume in piena, non riesco a dirle di no. Mi butto.
Sotto l’acqua: la pace. Il rumore della pioggia che sbatte arriva ovattato, come se piovesse in un altro universo, o in un’altra epoca, magari. La città è già un abisso meraviglioso: al posto delle conchiglie cicche di sigaretta e gomme da masticare, un branco di seppie giganti marchiate Conad mi sfreccia davanti in cerca di preda, mi faccio largo tra marmitte stracciate, copertoni divelti, una macchina da cucire Singer, un frullatore a immersione. Nuoto sott’acqua per diversi metri, finché posso, finché ho fiato, strisciando la pancia, il pisello, le ginocchia sull’asfalto, cercando di essere più forte della corrente che inevitabilmente mi allontana da Olga.
Risalgo in superficie per respirare e vengo di nuovo aggredito dalla rabbia del nubifragio. Olga è sempre davanti a me che piange e chiama la sua amica. Ce la posso fare, sarà a una decina di metri da me, la sento, la intuisco, mi immergo di nuovo.
Sott’acqua riesco a vedere le sue gambe che scalciano, il suo sedere grosso aggrinzito dal freddo. La afferro. La trascino. La spingo. O moriamo o ci salviamo assieme, Olga, le dico, collabora cazzo.
È in preda al panico, non si fa aiutare, mi morde un orecchio, le tiro uno schiaffo forte, per un momento si blocca, mi guarda con un misto di paura e curiosità, poi ricomincia. A ogni bracciata bevo: acqua fangosa, salata di polvere di asfalto, e merda e piscio sbrodolati fuori dai tombini esplosi. Non ci faccio caso. Sono un eroe.
In qualche modo riesco a trascinarla fino alla zattera, Irina non ha mai smesso di urlare, Salvala amico italiano!, come un ritornello. Con le ultime forze che mi restano la lancio sul tavolino della pizzeria e mi ci arrampico pure io.
Nonna continua a dormire tranquilla, attaccata alla gamba del tavolo, ghigna soddisfatta, lo sa che ormai il funerale salterà, non sperava di meglio.
Irina, urlo, tu di vedetta a prua! Olga è semisvenuta ma è viva, piange piano, ma nessuno di noi può sentirla perché la pioggia è più forte di tutto.
O quasi: dal buio grigio strisciato d’acqua arriva una voce. Come da un megafono.
State intrando in nostro tiritorio, vi ordino di arendervi.
Irina mi guarda e fa cenno di sì, che è meglio arrendersi. Ma chi sono, questi, che in questa notte di merda giocano a fare la guerra? urlo a Irina, Chi siete?, mi risponde il megafono, sempre dal buio.
Siamo tuto quelo che ti fa paura, amico italiano! Siamo queli coli denti d’oro, i ladri di autoradie, i stupratori di vostre done, i svaligiatori di case, siamo i senza case! Siamo i nomadi e tu devi venire con noi!
Non faccio nemmeno in tempo a capire se è uno scherzo o no, che dal buio si materializzano decine di roulotte galleggianti nel fiume di pioggia, dagli oblò decine di maschere da sub ci guardano e ridono, decine di fucili da pesca puntati su di noi, centinaia di denti d’oro luccicano nel buio.
Sopra la roulotte più grande, in piedi sul tetto, un uomo enorme, strizzato dentro una muta da sub, in testa un cappello da baseball nero, in una mano il megafono, nell’altra un fucile da pesca molto più grande degli altri.
Lunga pausa.
Anche la corrente sembra essersi fermata. Tutti aspettano, pure i morti nelle bare pare abbiano frenato la loro corsa sul pelo dell’acqua, la città dietro di noi è scomparsa, risucchiata dalla pioggia.
Siamo soli. E indifesi. Non c’è altro da fare che arrendersi.
Alzo cerimoniosamente le mani in aria per annunciare la mia resa, quando un fulmine illumina a giorno tutta la scena: il viso del capo dei nomadi cambia espressione, all’improvviso.
È lui adesso che alza le mani al cielo, spara in aria la fiocina che fa un’alta parabola atterrando in picchiata su un topo che stava nuotando poco distante e che muore sul colpo vomitando sangue e bestemmie.
Anche le facce negli oblò delle roulotte cambiano espressione. Il re dei rom inizia a intonare un canto nella sua lingua, con una voce profonda e solenne. Tutti lo seguono, commossi. Continuo a non capire.
Irina mi viene davanti e si inginocchia. L’Uomo Nudo, dice, e si mette a ridere fortissimo. Olga si è finalmente addormentata.
Mi ero quasi dimenticato di essere completamente nudo, mi guardo e capisco perché Irina si sia messa a ridere così, all’improvviso. Irina, fa freddo, provo a giustificarmi: è che il pisello mi è diventato minuscolo, aggrinzito di freddo e di acqua, lei continua a ridere e urlare l’Uomo Nudo!
Irina, non mi sembra il momento di fare dell’ironia, davanti a tutti poi, bisbiglio a denti stretti. Cosa stanno cantando?
Dice il Signore: Il terzo giorno di piogia, quando strade saranno fiumi di fango e sarà guerra in tera e cielo verrà col fulmine un uomo nudo a benedire i uomini.
Ah.
Il canto si confonde con la pioggia e pian piano va a sfumare. Il re dei rom piange a dirotto. Io non so che cosa si fa in questi casi, provo ad assumere una posa che mi sembra solenne, sempre con le braccia levate al cielo, e adesso che devo fare?, Chiedo a Irina cercando di non farmi sentire.
Irina mi fissa ammutolita. Io la fisso ammutolito. Poi c’è un fischio e un’esplosione: il capo degli zingari ha lanciato un razzo di segnalazione, tutti lo osserviamo esplodere nel cielo bagnato, come se fosse ferragosto.
Un altro razzo esplode, nel buio poco lontano, e poi un altro e un altro, in breve il cielo è illuminato dai razzi e dai fulmini, a perdita d’occhio, all’infinito, quasi.
Amici senza case festegiano arivo del Uomo Nudo!, urla il re degli zingari sputando bava e pioggia, vieni in mia rulotta Uomo Nudo.
Buio.
Dopo non mi ricordo. Forse mi sono addormentato. Forse mi hanno dato una bottigliata alla nuca e mi hanno rapito. So solo che poi mi sono svegliato.
Mi sveglio perché sto soffocando: ho la bocca piena di capelli biondi tinti, anche il naso. Riesco con uno sforzo indescrivibile a separare le palpebre incollate dal sonno, tossisco, mi gratto un po’, sputo i capelli: sono di Irina. È addormentata a fianco a me, la sua schiena nuda è incollata alla mia pancia sudata. Ci siamo addormentati in una posizione scomoda, penso: la mia mano, passando sotto il suo corpo le è finita in bocca, nel sonno mi mordicchia delicatamente l’indice; l’altra mano è schiacciata fra le sue cosce, provo a muoverla lentamente, percorro la pelle di Irina coi polpastrelli, conto sei smagliature grandi e tre più piccole. I nostri piedi sono intrecciati, in una maniera che mi sembra innaturale, una mano di Irina è nascosta sotto il cuscino. L’altra da qualche altra parte fra le mie gambe.
Mentre penso che è strano che non mi senta scomodo, inizio a sentirmi davvero molto scomodo.
Non vorrei disturbare Irina che dorme, ma il mio corpo inizia a formicolare, Irina, sussurro. Irina, ripeto. Lei si muove un po’, si gira e mi stampa un bacio colloso di risveglio sulle labbra. Poi si riaddormenta. Irinacazzosvegliatimischiacciilbracciodovecazzosiamo.
Irina non si sveglia, riesco a sfilare il braccio da sotto il suo collo. Mi tiro su, abituo piano gli occhi alla penombra. È tutto molto piccolo attorno a noi. Tutto molto umido. Siamo in una stanza microscopica che beccheggia da una parte all’altra. Sinistra e destra, sinistra e destra. Come una culla, come un utero, come una cazzo di altalena, all’improvviso mi ricordo tutto: è la roulotte del capozingaro, quello che scoppia i bengala, quello armato di fiocina. Ho perso nonna. Ho perso tutte le bare. Sono ancora nudo, ho freddo, sono sudato. Do un’occhiata dall’oblò: fuori c’è un’alba color ardesia, solo acqua. E roulotte. Ovunque, a perdita d’occhio, solo roulotte galleggianti alla deriva.
Il silenzio, che c’è: non riesco a immaginare niente di più simile a dio. Le centinaia di roulotte che galleggiano nell’acqua non fanno rumore. Nessuno sciabordio sui fianchi di vetroresina, non un suono, umano o animale, arriva dal deserto acquatico in cui la notte e il diluvio ci hanno trascinati. Tutto si muove senza vibrare, la membrana del mondo è ammutolita. Dio ha spento il rumore del mondo, e da qualche parte sorride di tenerezza e dice figli miei indifesi.
Ci vorrebbe il tiggì, dico. Irina si rigira nel letto, scoprendosi tutta. Ci vorrebbe il tiggì e un goccio di caffè, ripeto. Ma la roulotte non ha la tivù, non c’è speranza. Dovrò cavarmela solo.
Mentre mi tormento la barba e mi sento preoccupato ma anche maledettamente bello, Irina inizia a parlare nel dormiveglia: ha gli occhi semichiusi, le braccia sollevate e abbandonate all’indietro, i capelli biondi tinti sparsi sul cuscino bianco come una aureola. Gli uomini morti che erano con te li abbiamo messi in una rulotta, dice, stanno bene. Bene, dico e poi sto zitto un attimo per dare, credo, più enfasi a quello che dirò dopo: ma che cazzo è successo? Siamo in mezzo al mare? Breve pausa, Irina sbadiglia, Il mare è dappertutto adesso, dice, grazie a te. Viene da sbadigliare anche a me, di riflesso, ma resisto: gli eroi non sbadigliano.
Il silenzio va via, sostituito all’improvviso dal fischio del megafono del capozingaro. Mi affaccio dall’oblò e vedo che tutti fanno la stessa cosa: centinaia di teste sporgono dalle piccole aperture rettangolari, tutti indossano ancora le maschere da sub e il boccaglio. Il capozingaro inizia a salmodiare qualcosa nella sua lingua, qualcosa che sembra un canto, o un discorso, tutti si girano a guardare verso di me. Irina, traduci! Lei fa sì con la testa, languida. Poi inizia a parlare con la voce impastata.
Dice il Signore: l’arrivo dell’uomo nudo è vicino! Sii preparato! Trova una casa che camina su strada e galecia su acqua! Sii preparato! Raccogli quello che ti serve per il lungo viaggio sull’acqua! Non fare che l’uomo nudo ti trova impreparato! Quando arriva l’uomo nudo, salva chi è in dificoltà. Chi non è in dificoltà farò in modo che muore e viene dimenticato. Chi salverai è ricordato, chi non salverai non è ricordato.
Irina, si dice che muoia, non che muore.
Scusa, continua.
Il terzo giorno di piogia, quando strade saranno fiumi di fango e sarà guerra in terra e cielo verrà col fulmine un uomo nudo a benedire i uomini. Quello è il segnale che il giorno è arrivato! Se incontri l’uomo nudo venire con l’acqua, avvisa tutti gli uomini senza casa. E chi sarà avvisato, dovrà avvisare. L’uomo nudo radunerà tutti i uomini senza casa. Loro potranno riunirsi e riconoscersi fratelli. E salvare gli altri fratelli disperati. Prendi quello che ti serve per il viaggio, il giorno è vicino! Tutto quanto potrà esserti utile il Signore te l’ha messo a disposizione, chi più raccoglierà più sarà glorificato. Sia lode e gloria eccetera eccetera.
E quello sarei io? Certo che no, ma loro ci credono. Mi fai impazzire quando mi sminuisci. Pausa.
Ma ieri notte tu ti sei inginocchiata ai miei piedi ridendo di gioia e urlando l’Uomo Nudo! ah! l’hai fatto per reggere il gioco al capozingaro, sei furba. Irina mi guarda molto seria, si alza dal letto, tutta nuda, e viene dritta verso di me con passi morbidi, no mi è venuto da ridere perché avevi il pisello minuscolo per il freddo.
Ah.
Poi credo che ci saremmo baciati e tutto il resto, se non avessero bussato fortissimo alla porta della roulotte.
A bordo di una zattera formata da alcuni sportelli di panda bianchi e neri saldati tra loro, mi è venuto a trovare il capozingaro in persona. E adesso come ne esco dalla fine del mondo?
Fuori l’alba è diventata un quasi giorno, l’aria è limpida e infinita, non c’è nemmeno un batuffolo di nuvola, non c’è più niente, a parte l’acqua e gli zingari. Poi guardando meglio mi accorgo che oltre alle roulotte stanno arrivando centinaia di zattere fatte con qualsiasi cosa: l’apocalisse ne ha risparmiati parecchi.
Il capozingaro mi invita a salire sulla sua zattera. È tutto come dice la canzone che mi ha tradotto Irina: gli zingari hanno salvato chi hanno potuto, chi era in difficoltà sulla loro strada. Ne hanno salvati tanti.
Mi chiedo in che parte del mondo siamo finiti, ma è una domanda che non ha più senso: non c’è più un mondo. Non ci sono più distanze, nessuna altezza, solo incalcolabili profondità.
Cambio domanda: sarà sopravvissuto qualche animale, oltre a questi umani in pigiama? Che siano affogati pure i pesci? Dietro questa domanda ce n’è un’altra, che resta là, inespressa: si sarà salvata la mia famiglia? Ma non ha nemmeno il tempo di prendere forma, questo pensiero, che subito ne arriva un altro, più imponente, più sfrontato: perché non c’è dio?
Voglio dire, se questa è la fine del mondo, dio dov’è a dividere i buoni dai disonesti, a punire chi ha rubato, a premiare chi ha subito? È questa la salvezza?
È questa la salvezza?
È questa?
Sgocciolo domande senza senso. Sono uno sbrodolone.
Cosa farà tutta questa gente adesso?
Si mangeranno tra di loro?
Irina si è innamorata di me?
Quanta gente si è salvata?
Dove andremo adesso?
Irina si è innamorata di me?
Sarà fredda l’acqua?
Io cosa farò?
Irina, si è innamorata di me?
Sbatto forte le palpebre.
Il cielo si fa più limpido all’improvviso, la terra continua a percorrere lo spazio nero, una palla blu e verde e marrone lanciata a folle velocità, più limpido il cielo, che mi sembra di vedere la luna che gira d’argento e le stelle.
Le stelle, adesso mi sembra di vederle nel cielo, tutte. Tutte le stelle che ci sono io le vedo bruciare assieme, fisse e immobili consumano il loro carico di luce e di gas, lontane che nemmeno lo sanno che noi qua sotto galleggiamo sospesi su un mondo che non c’è più.
È tutto così limpido che non c’è più l’atmosfera, non c’è più cielo, ma solo noi, i salvati, che ci chiediamo silenziosamente cosa ci stiamo a fare qua. Vorrei percorrere questo grande mare giallo di alluvione fino ad arrivare al bordo scuro infinito e buttarmi di sotto e galleggiare nel nero vuoto dello spazio abbracciato a Irina per sempre.
Pausa. Limpida. Sbatto forte le palpebre.
Domani piove, vedrai, continua questa voce che mi è familiare, come un mantra. Non vai a letto?
Sbatto forte.
Nel salotto di casa si è fatto buio pesto, la tavola è ancora apparecchiata, l’orologio digitale del lettore dvd dice 3:03, zia mi guarda dalla sedia a rotelle e mi indica con l’unghia lunga, non vai?
Sì, dico, sì. Adesso vado. Zi’?
Eh.
Ma a te, dico, tu, il funerale come lo vorresti?
Io non ne voglio funerale.
E nonna, secondo te, come lo voleva il funerale?
Nonna, secondo me, niente funerale. Dormire, e boh. Il funerale è roba per i vivi.
Pure io voglio andare a dormire adesso, è tardi.
Vai che domani ci dobbiamo alzare presto. Devo pure aprire il negozio domani.
Zi’.
Eh?
Tu, è trent’anni che non lavori più.
Lo so.
Al funerale: tutti piangiamo. Anche zia.
Settecentosessantacinque.
Settecentosessantasei.
Cazzodiavolo.
Settecentosessantasette.
Shhhhh.
Settecentosessantotto.
La settecentosessantottesima goccia di pioggia è l’ultima che scende dal cielo sulla mia testa.
Adesso, ha smesso di piovere.
Solo ombrelli al cimitero: i due operai rumeni che stanno infilando nonna dentro la tomba di granito scivolano nel fango e bestemmiano. Poi chiedono scusa.
Chiudono la tomba coi mattoni e il cemento. Andiamo via, a bere un caffè.
A testa bassa, sto aspettando un autobus che mi riporti all’aeroporto. In via Padre Zirano ci sono i ragazzi che tornano da scuola, ci sono le donne che corrono a casa a preparare il pranzo, ci sono le puttane di via dei Gremi che fumano sigarette e chiacchierano rumorosamente. La bionda, mi pare di conoscerla, mi guarda e mi fa l’occhiolino, amico italiano, mi offri una sigaretta? Ci facciamo una foto?
Perché no?
Oh!, urla la bionda, e dal nulla appare uno zingaro che avrà dodici o tredici anni, ha in mano una Canon enorme. Sorridi, amico italiano, mi dice. Clic. Sorride anche lui, ma non mi sembra felice.
Io non lo so se sono felice, ma almeno ha smesso di piovere.